sabato 27 gennaio 2024

Poor Things

 Nel nuovo film di Lanthimos mi pare tutto messo al posto giusto per il premio prestigioso che ha ricevuto, tranne dove la regia sembra correre dietro alla vicenda anziché alimentarla e dove la verbosità prende il posto dell’icastico, del mordace. Questo accade in diversi noiosi momenti e sono quelli durante i quali ho buttato l’occhio all’orologio in una sala, vivaddio, stracolma davvero anche considerando che si trattava di una proiezione in lingua originale.

Dico subito che io Lanthimos lo conosco e lo ammiro dai tempi in cui i suoi film (“Kynodontas” ancora prima di “Kinetta”) non passavano che a “Fuori orario” e li guardavamo in cinquanta sfigati. Poi l’autore ha giustamente guadagnato fama e attori di primissimo piano. 

Allora i canini si sono fatti un poco meno penetranti nella purulenta carne delle convenzioni sociali, sua idée fixe. Ma io ho amato molto anche “The Favourite”, dove l’ambientazione d’epoca anziché inibire il vivacissimo eppur chirurgico occhio del regista (si è spesso ma inopportunamente tirato in ballo Kubrick) è invece capace di rilevare con sorprendente perché immaginativo realismo le insalubri atmosfere e le sottigliezze emotive che circondarono la regina Anne. 

Sarà il fatto che arrivo dalla lettura di “Jude the Obscure” (lì altro che, come qui, messa a punto neopositivistica dei social standards comunemente accettati); oppure saranno le mie idiosincrasie nei riguardi di certa estetica alla Guillermo del Toro (e pure alla Wes Anderson seconda maniera). Ma questa volta le strategie del racconto filmico che Lanthimos - in grado oggi come pochissimi altri tanto di possedere in cifra autentica quanto di misurare poi sapientissimamente - mi sono sembrate debordare in favore del racconto, verso un cinema fatto a misura per l’intrattenimento di tanti dopo averli per una trentina di minuti destabilizzati quanto basta. 

Comincio poi a maturare, specie qui su Facebook, un’allergia pungente nei riguardi dell’estetica figurativa prodotta da AI, tutta contorni stemperati su tinte fiammanti, convessità fatte per sfondare la profondità di campo. Attenzione: è formidabile nella “Favourite” l’impiego di lenti deformanti per necessità sintattiche. Ma qui il gioco visivo si ripete a perdere, sommandosi a un apparato scenografico sempre mutevole grazie alla computer grafica che incontra poi soluzioni di ripresa via via tediose perché prevedibili e che mi paiono così disinnescarlo. 

La fabula è neofemminista, come si conviene oggi, e il finale è insolitamente liliale per un Lanthimos. 

Quali e ben più preziose autopsie nel 2022 stavano sul tavolo da lavoro del vecchio Cronenberg (“Crimes of the Future”). 

Una cosa Lanthimos non sbaglierà mai: la colonna sonora, pure quando nei suoi primi film non ne esisteva alcuna. Qui è firmata da Jerskin Fendrix e merita la lode.


venerdì 29 dicembre 2023

Maestro




Mi ha convinto “Maestro” di Bradley Cooper, e dire che stavo parecchio sul chi va là. 

La scrittura è solida e il regista-sceneggiatore dimostra, eccome, di saper mettere la mdp. Per essere l’opera seconda di un attore mi pare questa assai più che una promessa; parola che è titolo del gioiello del suo collega Sean Penn, col quale la critica fu a suo tempo assai poco onesta. Lo è anche nel caso di Cooper? Non ho letto ancora nulla su “Maestro” a parte online qualche rimprovero poco circostanziato.

Sono uno spettatore che in fatto di film biografici su compositori e musicisti si dispone sempre con severa inclemenza, certo esagerando. Ma non conto che una mezza dozzina di pellicole all’altezza del compito: il Bach di Leonhardt/Straub/Huillet, “Bird” di Eastwood, il Liberace di Soderbergh, il sintetico ma formidabile ritratto di Liszt nella “Lola Montès” di Ophüls e, naturalmente, il più grande capolavoro fra i film che hanno per soggetto la musica: “La pianiste” di Haneke. Ma quella è tutta un’altra storia. 

Cosa mancherebbe al film di Cooper? Forse ciò che dovrebbe esserci secondo musicofili in cerca di oggettività e completezza documentaristica? Ma per quelle bisogna rivolgersi altrove. E del resto mi pare che il film non possa scontentare neppure gli estimatori di quel genio infaticabile e trascinante che è stato The Big Lenny; variegato e niente affatto prevedibile, tantomeno nell’impiego filmico, è il ventaglio delle musiche, come sapidi sono gli ammiccamenti a testi e libretti. 

Protagonista capace, per deliberata scelta del regista, di catturare più di lui (Cooper/Bernstein) l’attenzione degli spettatori è qui la formidabile Carey Mulligan che ho amato sin dai tempi di “Drive” e che trovo abbia lasciato adesso e in uno dei migliori film del decennio passato le sue forse più esaltanti interpretazioni: era la fragilissima e commovente sorella di Fassbender in “Shame” (McQueen, 2011) e ora è una meravigliosa Felicia Montealegre. 

La tensione delle risposte contraddittorie che dà valore all’opera d’arte (esergo del film) trova nel lavoro di Cooper efficaci momenti in cui saggiarsi; e alla Mulligan ne sono riservati di preziosi. Sono pochi perché dosati in modo che in essi si concentri ciò che è espresso senza infingimenti. Penso alla bugia di Lenny con Jamie, che è sequenza di spiccata intensità nella quale il protagonista è avvicinato dalla camera laddove altrove la sintassi del privato predilige il campo lungo. 

In una stagione cinematografica come quella appena passata, tutto fuorché esaltante, “Maestro” mi pare evidente eccezione.

mercoledì 16 agosto 2023

Renata Scotto (1934-2023)

 Da dove si comincia per salutare un’artista di straordinaria grandezza come Renata Scotto (dove l’aggettivo è impiegato con coscienza e non per qualificare, come accade sempre più spesso, l’assolutamente ordinario)? 

Io in questo momento non ho dubbi: Luisa Miller, uno di quei ruoli divenuti impossibili che lei ha affrontato forte di tutto il magistero tecnico e interpretativo di cui era capace.

E, in seconda battuta, ecco la più perfetta Serpina della storia. Perché la carriera della Scotto è stata sì quella di una cantante che tanto ha osato, ma ha osato tanto perché “le cose facili” - ammesso e non concesso che esistano davvero - le venivano… così! 

Per sempre grazie signora Scotto!


lunedì 1 maggio 2023

La joie de vivre





Per trovare un romanzo che con tale radicalità costringa il lettore alle domande più insopprimibili dell’essere umano bisogna rivolgersi ai russi e poi ricordare che là questo non avviene con altrettanta asciuttezza e prossimità dialettica. 
Di più. Per incontrare un romanzo di forza espressiva ad esso paragonabile ci vorrebbe qualcosa come Wuthering Heights. E dire che lo avevo trascurato! Ora che sto terminando quanto mi mancava del ciclo di Zola eccolo dunque letto e amato immensamente. 
I personaggi sono appena un pugno e la vicenda si dipana difronte al mare in meno di tre lustri: è quasi la durata della vita di una gatta che con l’oceano è il solo soggetto compiutamente salvo del romanzo. Perché salvato da Zola che lo preserva dalle velleità e dai dolori avvertiti nella viva carne (quando il cuore e mente già non diano strazio) degli Chanteau padre, madre, figlio, nipote, nuora e serva; a lei è riservato un colpo di coda tipico del grande romanziere, forse mai come questa volta in pari grado ironicamente feroce. 
E poi dove altrimenti trovare una ricognizione così fondata di quello che impropriamente chiamiamo “sacrificio per amore” e che non è altro se non abnegazione alle proprie sincere, autorivelate necessità? 

Fra le foto, anche immagini di un’edizione italiana che compie i cento anni e che appartiene alla biblioteca di famiglia.



lunedì 27 marzo 2023

Gianni Minà (1938-1923)

L’altra civiltà, quella dei contenuti. 

A metà dell’intervista di Minà c’è il filmato con Ferreri e la Schygulla, vincitrice a Cannes ‘83 in un concorso che includeva, fra gli altri, Bresson, Tarkovskij (celeberrima la foto a tre con Welles), Ōshima, Gilliam, Saura, Scorsese, Imamura, Chéreau. 

https://youtu.be/RTxhlNILk8Y



martedì 21 marzo 2023

Virginia Zeani (1925-2023)

Tre ascolti per salutare quel monumento di professionalità e di coscienza artistica che è stata Virginia Zeani, soprano per la quale le attrattive della donna, bellissima, non furono che complemento a una carriera costruita passo per passo e in nome di cioè che chiamiamo così: arte del canto.


https://youtu.be/fVZOULNzXCY

https://youtu.be/fYqCP5o8Cg0

https://youtu.be/CxMF7hW6ixs



martedì 14 marzo 2023

Everything Everywhere All at Once

Fondamentale o superflua è la visione di Everything Everywhere All at Once. Dipende da quanto siete aggiornati rispetto al filone che è andato costruendosi nei decenni fra cinema e tv attorno allo stesso tema. E dipende, in misura niente affatto minore, da quanto possedete o fate vostro il concetto hegeliano di morte dell’arte. Perché è sui contenuti sociologico-filosofici e non sulle forme (siano esse profilmiche o filmiche) che scommette il lavoro più premiato dell’anno. Potremmo infatti stare una settimana a enumerare tributi e riferimenti a una filmografia che occupa già almeno uno scaffale, concentrata attorno alla Many World Interpretation di Everett, alla teoria delle stringhe e alle ricadute sulla percezione umana delle realtà. È una filmografia che oltre alla scienza ha per capostipite la letteratura, quella di un vero genio visionario: Philip K. Dick. 
Se la chiacchiera fosse puramente estetica, trovereste chi nel film americano ci ha visto molto Gondry e meno la serie tv Sense8. In realtà i tributi al regista indie non turbano - si fa per dire - l’estetica Netflix perché al cinema e a casa devono starci proprio tutti o in maggior numero possibile. 
Non è furberia, non c’è dolo, secondo me. Il fatto è che la materia, l’idea di fondo, preme così tanto sulle forme da renderle trascurabili, già viste perché già straviste. A tenerle vive pensa sua Maestà il Montaggio. 
È così che il film è un teorema con tanto di svolgimento tripartito. O una lettera al mondo; almeno a quello che non è attualmente impegnato a imbracciare un fucile. 
Nel frullato elettronico-materico del soundtrack s’insinua per poco anche Debussy perché si va verso il finale, finalmente. Sono 139’ e la noia non è tra gli ammazzati. 
Il congedo è speranzoso, ma non troppo. Perché ad un’umanità - la nostra - smarrita fra individualità frantumate, relazioni votate al silenzio e pressioni nella realizzazione socio-economica il raccomandare di percepirsi sempre e convintamente nel qui e ora deve essere parso giustamente eccessivo ai registi-sceneggiatori. Ma non per questo è invito da trascurare.